Era un mercoledì , il 30 aprile 1986 e mi pare ci fosse il
sole. Mentre a Pisa un gruppo di ingegneri del Cnr digitavano la parola “ping”
sulla tastiera di un enorme computer, inviavano il loro messaggio oltreoceano e
stabilivano la prima connessione italiana via Internet senza rendersi conto di quanto ciò che stavano
facendo avrebbe influito in futuro sulle loro e sulle nostre vite, anch’io mi
connettevo per la prima volta con un mondo “nuovo”. E neanch’io ero a
conoscenza del fatto che quella
connessione avrebbe cambiato per sempre la mia vita.
Era il mio primo giorno di servizio civile. All’epoca durava
20 mesi. Ero stato assegnato all’Unione
italiana lotta alla distrofia muscolare (Uildm), un’associazione creata dai
familiari dei ragazzi affetti dalle distrofie muscolari, malattie gravissime,
molto invalidanti e ancora oggi senza cura, anche se i progressi della ricerca
scientifica e l’esperienza dei medici hanno reso possibile che i distrofici
vivano un po’ meglio e, soprattutto, molti anni di più.
Nel 1986, però, la ricerca sapeva poco della distrofia. E io
ancora di meno. Fino ad allora, avevo 21 anni, non avevo mai conosciuto una
persona disabile , ma mi erano bastati un colloquio di un’ora con Maria, una
psicologa che poi sarebbe diventata una grande amica, e un giro nella sala dove
i ragazzi distrofici facevano terapia, per decidere che quello sarebbe stato il
posto dove avrei passato i successivi 20 mesi.
Li ricordo stesi sui lettini, con i loro corpi devastati
dalla malattia. Praticamente immobili, facce scavate e schiene deformate. I loro
muscoli, mi aveva spiegato Maria, sono atrofizzati. Devono fare fisioterapia
tutti i giorni, smettono di camminare quando sono ancora bambini e raramente
superano i 20 anni di vita, perché anche cuore e polmoni si spengono pian
piano. Parlava, Maria, della distrofia di Duchenne, la forma più grave. Quella
con cui avrei “combattuto” anch’io, perché era con quei ragazzi che sarei
dovuto stare. “Il tuo obiettivo – mi disse la psicologa – è quello di farli
vivere come i ragazzi della loro età, di portarli fuori da casa, di staccarli
dalle mamme”.
E così feci, coinvolgendo anche un sacco di amici in questa
meravigliosa avventura. Con i ragazzi distrofici girammo la città, andammo in vacanza al mare, costituimmo un gruppo
rock e la redazione di un giornale. Poi loro morirono, quasi tutti, ma io
rimasi connesso con quella grande famiglia, lavorando per Telethon, che era
nato e cresciuto proprio per trovare una cura alla distrofia muscolare, e
scrivendo le loro storie.
Ecco, la coincidenza della data mi ha fatto tornare in mente
questi bei ricordi. E la parola connessione mi ha fatto riflettere
sull’importanza dei rapporti umani nell’era di internet e di Facebook (grazie
al quale rimango in contatto con un bel numero di amici della Uildm e
condividerò questo post). Penso a mio
figlio, ai ventenni di oggi. E vorrei dare loro un messaggio positivo,
nonostante la crisi economica, il lavoro che non c’è, l’Isis e le tante brutte
cose che accadono.
Dedicate il vostro tempo a conoscere persone diverse da voi
– vorrei dirgli – non abbiate paura di dare agli altri, che poi sarete voi
quelli che prenderanno di più. Fate il servizio civile, se potete, occupatevi
dell’ambiente che vi circonda, delle persone che hanno bisogno di aiuto. E con
gli amici di Facebook trovate il modo di vedervi, di toccarvi, di fare qualcosa
insieme.
Poi, fra trent’anni, fermatevi un minuto. Ripensate a quello
che avete fatto e raccontate a qualcuno come sono andate, le vostre connessioni.
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