martedì 14 gennaio 2014

Stamina, la mia storia - 1) Cosa c'è da salvare

Terapie “miracolose” somministrate in ospedali pubblici senza che nessuno ne conosca la composizione. Malati che si dissanguano e si crocifiggono perché le stesse terapie vengano fornite a tutti, anche se sanno bene che per la loro malattia non servirebbero a nulla. Giudici che si sostituiscono ai medici e impongono le cure da somministrare, altri giudici che bocciano il parere di fior di scienziati perché nella commissione da loro formata non è stata rispettata la par condicio (erano tutti convinti che due più due fa quattro e non ce n'era nemmeno uno che sosteneva che facesse cinque). Giornalisti o pseudo tali che al grido di "noi raccontiamo soltanto una storia" creano un movimento d'opinione intorno ad una bufala cosmica e sacrificano sull'altare dell'audience decine di famiglie già provate da malattie devastanti. Uno vede il caso Stamina ed ha l'ennesima conferma che l'Italia è un Paese alla frutta, che magari i figli se ne vadano a studiare all'estero e che chissà che un giorno non li raggiunga pure io. Eppure, forse, qualcosa da salvare c'è, in questa pazza e italianissima storia. E nel racconto della mia personale avventura con Stamina voglio partire da lì. Dalle tante famiglie con bambini affetti da gravissime patologie degenerative che hanno cercato di difendere la verità - e cioè che per i loro figli purtroppo una cura non c'è ancora, ma che se li si accudisce con l'aiuto di medici e terapisti possono vivere in maniera dignitosa le loro difficili vite - dagli attacchi di altre famiglie che, pompate dai re dell'audience, li accusavano di volere la morte per i propri figli. Oppure da quelle famiglie che hanno tentato con Stamina, perché in mancanza di soluzioni uno le prova tutte, ma non per questo hanno preso ad insulti, attraverso i social network, chi invece non ci credeva. E che dire degli scienziati e dei medici. Ne conosco alcuni che hanno sacrificato giornate e nottate per rispondere colpo su colpo alle panzane di Davide e Golia (lo psicologo esperto di mesenchimali e l'anchorman che racconta solo una storia
), per metter su una vera contro-inchiesta giornalistica aspettando che i giornalisti veri si svegliassero o per svegliarli direttamente, quando capivano che il sonno era troppo profondo. Giornalisti, anche tra loro c'è stato qualcuno che si è appassionato alla questione. A parte gli addetti ai lavori, che per mesi hanno predicato nel deserto, c'è stato da subito chi ha capito cosa stava avvenendo e si è messo al lavoro per raccontarlo. Ma si è trattato, purtroppo, di mosche bianche, soprattutto in ambito televisivo (che in Italia, Berlusca docet, è quello che conta). Tra le cose che mi hanno sorpreso in positivo voglio citare un ministro, anzi una ministra. Al di là delle azioni politiche, che mi sono sembrate tutte (o quasi) dettate dal buon senso, mi ha colpito la passione. Magari mi sbaglio, ma guardandola, da vicino, durante un'intervista, ho visto in lei la fatica per la gestione di una patata bollente come poche, ma anche la determinazione di chi vuole superare gli ostacoli, per quanto ardui essi siano. E l'impegno, che ha promesso (e su cui la aspettiamo al varco) per far sì che da subito si crei una rete di sostegno per le famiglie dei malati. Un intervento concreto per combattere la solitudine e l'abbandono, che poi sono le cause vere che fanno nascere e crescere i Vannoni di turno.

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